Rhevo cycling

Rhevo Cycling

La giovane storia di RHEVO

about rhevocycling

L'inizio

Rhevo nasce dall’esperienza nelle corse tra gli Elite che, rafforzata dagli studi universitari, si toglie le rotelline e prova a pedalare sul pavè, col manubrio che trema e le ruote che non ne vogliono sapere di scorrere.

Nasce inizialmente come idea, come un pensiero di quelli che strappano un sorriso, una piccola intuizione che illumina gli occhi spenti di chi è stanco di vivere il vecchio, il classico, il monotono, l’antico ciclismo.

Nasce da un Criterium per bici a scatto fisso, a Milano, in Bovisa, era una Red Hook. Si, proprio una di quelle gare senza freni, con il pignone fisso e le bici da pista; però su strada, in circuito, con le curve. Con la musica a volume altissimo, gli speaker che urlano esaltati nei microfoni, il pubblico che incita gli atleti come ultras, il fascino di correre nella notte, i fiumi di birra. Quelle gare considerate troppo fuori dagli schemi dai puristi del ciclismo italiano per essere considerate gare, anche quando sul palcoscenico internazionale si erano già affacciati da tempo anche corridori militanti nelle blasonate squadre World Tour, la massima categoria del ciclismo mondiale.

Red Hook di Milano: i corridori sfrecciano velocissimi nel circuito del Politecnico e fanno pieghe in stile motociclismo, sfiorando i muretti e limando i marciapiedi, sono dei veri e propri funamboli dotati di riflessi e dal controllo del mezzo sovrannaturali. Una caduta terribile, la mia. Ma la festa continua e l’esperienza di vivere quella giornata, anche solo da spettatore, ha cambiato per sempre il mio modo di vedere, guardare, sentire e vivere il ciclismo. Se solo i direttori sportivi trovassero il tempo di guardarsi attorno e fermarsi a ponderare i nomi e il curriculum di chi, in quegli eventi, sapeva dare vero spettacolo, probabilmente si ricrederebbero…

E allora si parte..

la voglia di realizzare “qualcosa” è tanta ed è forte. I primi disegni a mano libera, su foglietti volanti, sul retro di quegli scontrini che ti allungano dopo aver riempito il carrello al supermercato, e dopo aver pagato.

Poi altre idee, annotate un po’ ovunque e poi ricopiate “in bella”, e poi l’intuizione del nome, senza pensarci troppo, come è giusto che sia un’intuizione. In bici è facile lasciarsi trascinare dai pensieri, perché alla fine se non sei intento a fare le volate al cartello con il vicino di casa, il collega, l’amico, il compagno di scampagnate, ci estraniamo da ciò che ci circonda con la mente che pensa un po’ a quello che le pare e le gambe che girano rotonde, lo facciamo tutti.

E allora Rhevo. Una parola che deriva da “revolution” e da “evolution”, con una bella acca, come “high”,  nel mezzo. E poi, la R è diventata un ciclista stilizzato, sempre nella stessa maniera, pensando a cose a caso mentre pedalavo, dovendola annotare su un tovagliolino che avvolgeva il mio cornetto al cioccolato nella consueta pausa al bar di metà giro. La schiena ricurva, le braccia allungate a prendere il manubrio, la testa con lo sguardo ben rivolto in avanti, proprio come un ciclista pensieroso che spinge sui pedali.

I primi telai

I primi telai arrivano dopo pochi mesi, dopo aver vinto alcuni premi riservati alle giovani imprese innovative. La scelta delle geometrie fu particolarmente laboriosa perché dovevano essere rigidi e scattanti, ma allo stesso tempo guidabili e domabili.

Non c’è niente di peggio di non avere il controllo della propria bici, soprattutto quando non si hanno i freni. Sono partito dagli studi riguardanti la biomeccanica della pedalata, dalle due tesi sperimentali che mi avevano permesso di uscire dai tradizionali dogmi e di rendermi conto che si potesse fare molto di meglio di quel che si vedeva nel ciclismo. Uscire dagli schemi è sempre complicato, si viene additati come eretici o come incompetenti, o anche entrambe le cose, in effetti. Ma le prestazioni e i sorrisi soddisfatti che avevano gli atleti del team durante le gare sono state la conferma migliore del lavoro svolto. I miei progetti furono realtà.

I telai erano completamente costruiti a mano dal nostro telaista veneto, in alluminio con tubazioni dedicate e componenti scrupolosamente scelti, con saldature che sembravano più opere d’arte che saldature. Se esistesse un museo dedicato ai telaisti e alle saldature, di sicuro il nostro avrebbe un grosso spazio espositivo.

I primi eventi

I primi eventi organizzati prendono il via poco dopo i prototipi dei telai. Il nome scelto per contraddistinguerli fu “ #GODSAVETHECYCLISTS “ proprio come il movimento pensato per sostenere la mobilità urbana e la sicurezza dei ciclisti in strada, in un Paese dove si pensa più ad avere l’auto più ingombrante possibile piuttosto che tenere alla salute dei propri cittadini.

Abbiamo organizzato eventi, collaborato con altri organizzatori affini, coinvolto autorità e personaggi di spicco e sostenuto Onlus con intenti comuni.

Il fondatore.....

Giorgio favaretto

Sono nato in una piccola frazione di un piccolo paesino e trasferito dopo poco in un altro altrettanto piccolo paesino nel Monferrato astigiano.
Ho iniziato a fare le gare in bici nel 1998, la prima fu su una bmx cigolante e con evidenti segni di usura, masticando un chewing-gum, col casco girato all’insù.
Ero un normalissimo bambino “vecchio stile”, difficile da tenere fermo e facilmente infiammabile. Timido con le vecchiette che strizzano le guanciotte per salutarti ma altrettanto disonorevole quando si trattava di disciplina ed educazione.
Tutta la trafila scolastica di rito, dall’asilo alle superiori, mi ha portato a capire che stare seduto ad ascoltare persone di dubbia cultura intente a spiegare un qualcosa che nemmeno loro conoscevano bene, non facesse per me. I miei genitori, ricorrendo a minacciosi rimproveri mi hanno condotto al diploma. “E’ intelligente ma non si applica”.
Una lunga trafila riguarda anche tutte le categorie del ciclismo giovanile, passando poi nelle categorie internazionali, dove ho sempre pensato che la gara attorno al campanile fosse il nuovo Giro delle Fiandre, con scarsi successi. Sono un fiammingo mancato.
Nel frattempo, all’Università di Scienze motorie gli addetti ai lavori hanno capito come attirare la mia attenzione, spiegando la fisiologia, la preparazione fisica, l’allenamento e parlando di sport, fu così che iniziai a studiare. 

Una carriera ciclistica mai effettivamente conclusa sfociata anche nel mondo dei criterium fixed mi ha permesso di capire che, effettivamente, prendere troppo sul serio la gara attorno al campanile non era il modo corretto di affrontare la vita.

Col tempo, mi sono specializzato nell’analisi posturale dei ciclisti in bicicletta e alla biomeccanica del movimento, sia grazie agli studi in Università sia con costanti aggiornamenti e approfondimenti, sia merito della collaborazione con altri professionisti di fama mondiale. È diventato il mio lavoro, oltre alla mia passione. Posso dire di aver raggiunto l’obiettivo che sogna il 90 % della popolazione mondiale: rendere la propria passione il proprio lavoro.
Nel farlo, sono aiutato da piccole autistiche forme di precisione maniacali, oltre che da continui e repentini upgrade alla mia amata attrezzatura. Il calibro elettronico, la livella laser e gli adattatori per i vari standard di perni passanti per i rulli, per esempio, dormono nel comodino di fianco al mio letto, ogni notte.

Amo il ciclismo.
Amo spegnere lo smartphone per poter guardare le grandi classiche del Nord in tv, ammirare i corridori per le loro gesta, magari alimentandomi con un bel tagliere di formaggi e idratandomi con una buona birra artigianale fresca.
Amo le performance, il miglioramento, lo studio, la tecnologia, il progresso, ma solo se uniti alla genialità, all’intuito e ad un pizzico di pazzia.
Amo le peculiarità del ciclismo: la solidità mentale che richiede, la solitudine che comporta, le sofferenze fisiche che impone; che spesso, al contrario, sono un catalizzatore di umane fragilità troppo e troppo a lungo considerate come una specie di tabù in uno sport “da supereroi”.
Amo assemblare biciclette audaci: Ne possiedo una dozzina. Ho una “tracklocross” ossia una ciclocross col pignone fisso e senza freni, una graziellina con la ruote da 20” e il riser da enduro, una ciclocross urban costruita con un telaio da 10 € raddrizzato a martellate.
Perché essere Nerd va bene, ma esserlo con stile è molto meglio.

Mai dare niente di meno del proprio meglio
Giorgio Favaretto